AUTOPRODUZIONI E RESISTENZA EDITORIALE

E’ sempre più difficile resistere, essere autonomi, pubblicare idee dissonanti e dissenzienti fuori dagli appositi algoritmi, con mezzi propri, con scopi differenti. Nonostante il proliferare del self publishing , in realtà, ad essere oramai quasi del tutto scomparso è proprio il concetto di autoproduzione, di distribuzione autonoma e Altra rispetto al giro editoriale classico. Fino a qualche anno fa qualunque città, anche di provincia, aveva le sue “distro”, vere e proprie microeditrici che stampavano con mezzi di fortuna la cosiddetta controinformazione. Ma stampavano anche racconti e romanzi collettivi, sperimentali, fumetti fuori dagli schemi, articoli in controtendenza, pampleth e invettive palesemente impubblicabili dalle case editrici. Era l’epoca delle fanzine, piccole opere pop di copyart in cui la fotocopiatrice diventava uno strumento da usare creativamente per ottenere rudimentali “effetti speciali”, spesso molto optical. Lo scopo era esprimere cultura e informazione: quella che mancava, quella che il soffocante mondo editoriale non vedeva e non capiva, quella diversa, estemporanea, popolare e non mediata. Quella che, proprio, non ne voleva sapere di diventare famosa e di arricchirsi con i diritti d’autore, visto che il NOCOPYRIGHT era talmente ovvio che neppure si sentiva il bisogno di scriverlo sul colophon.

Le distro avevano una loro distribuzione all’interno dei movimenti e le loro pubblicazioni le trovavi durante feste, eventi, festival, manifestazioni, manche nelle librerie particolari, nelle birrerie, nei centri sociali, durante i festival, i presidi, le manifestazioni… ma non è questo il punto perché, in realtà, in qualche modo, circolavano, potevano contare su una rete complessa e capillare fondata sull’impegno e sul passaparola. Quando avevi in mano una fanzin, un opuscolo autoprodotto con quegli strani approcci creativi, toccavi con mano la loro differenza di intenti, di progetto, sentivi la presenza di mondi affini, orizzontali, popolari. E la loro cartacea fisicità era indispensabile.

L’avvento di internet segna la caduta delle pubblicazioni autoprodotte che, oggi, sono praticamente introvabili e inesistenti. Con internet tutti possono pubblicare tutto quello che vogliono, ma in realtà è caduta l’impalcatura che dava senso ed energia al concetto di pubblicazione indipendente, antagonista, fuori dagli schemi editoriali classici che si sposano, inevitabilmente, a quelli di mercato. Anzi, ciò che oggi si chiama self-publishing non è altro che un trampolino di lancio per il mondo editoriale classico, uno spazio aperto per chi spera di farsi notare ed entrare, così, proprio in quel mondo; oppure è anche un non luogo dove si parcheggia chi non ha l’accesso alle case editrici.

In altre parole l’autoproduzione editoriale di movimento, quella che coniuga la creatività con l’attivismo, perdendo la sua forma cartacea, ha anche perso il suo spazio di autonomia, la sua reale differenza qualitativa con il mondo editoriale ordinario e ufficiale. Viene così a mancare quel prezioso spazio espressivo, quella sua particolare identità che non è saggio filosofico né trattato scientifico e neppure libro o rivista divulgativa , ma espressione di un sentire più immediato che diviene atto creativo di insubordinazione culturale, una specie di assalto al mondo da giocare a viso aperto. Quello spazio che non è solo slogan, ma ricerca autonoma di espressione altra, un vero e proprio “fare mondi”  e che, soprattutto, per sua natura, diserta i canali classici della pubblicazione e della distribuzione.

D’altronde, un movimento, per nascere ed espandersi, ha l’indispensabile necessità di questo spazio perché è da lì che si sviluppano le idee, i pensieri, le immagini, è da lì che si recepiscono quei piccoli passi di traverso di un immaginario che cambia, che si costruisce decostruendo quello vecchio, che si confronta, si mescola e si interseca con tutti gli altri movimenti.
Con i social, invece, il concetto stesso di critica radicale, che era portatore di pensieri autonomi diffusi lungo i labirintici itinerari dell’autoproduzione, viene sostituita dal cosiddetto complottismo che è pura condivisione acritica di post (in gran parte fake news) che non prevedono mai autonomia di pensiero e quindi ricchezza collettiva, che non provengono mai da inchieste e ricerche personali, che non confluiscono mai in veri movimenti di resistenza e opposizione, ma restano relegati in uno sterile fanta-nichilismo da consumare individualmente. E i corpi che restano chiusi, a ben vedere, hanno ben poche speranze di rivalsa.

Le poche autoproduzioni che resistono, allora, devono fare i conti con un immaginario legato al concetto di libro ordinario, di marketing della comunicazione, di seo, di indicizzazioni, di visibilità rispetto alle logiche da motore di ricerca e, come normale conseguenza, restano confinate ad uno spazio di senso che non è il loro. Resta solo un vago ricordo delle loro potenzialità, quell’anima ancora reale frutto di creativa manualità che si ostinano a proporre sulla scena distopica della comunicazione.